Valpolicella: Milo Manara e scuola d’arte Brenzoni
Sono stato in Valpolicella per una gara di mia figlia. Non potendo assistere alla gara, non potendo entrare nel palazzetto per il covid, avevo tempo.
Ho esplorato Sant’Ambrogio di Valpolicella. Di fianco alla Parrocchia ho notato un particolare edificio, ben leggibile ISTITUTO BRENZONI, con strano simbolo e la seguente lapide
scuola gratuita di ornato geometria architettura plastica ricordanza cara e perenne della rivendicata indipendenza italiana sospiro di tante età – posta la prima pietra nello anniversario dei fausti natali di sua maestà Vittorio Emanuele II re d’Italia il XV marzo MDCCCLXVIII
Vicino il cancello che doveva essere della villa Brenzoni Bassani, alla fine di quello che oggi è un parco comunale, ho notato un particolare monumento ai donatori di sangue FIDAS con una frase di Milo Manara Narra un’antica leggenda che un pellicano, come estremo atto d’amore verso i propri piccoli, si ferisca il petto con il becco per nutrirli con il proprio sangue.
Inoltre il parco della villa era arricchito da numerose sculture.
Sempre più curioso sono andato a cercare in internet ed ho scoperto nel sito della Scuola d’arte Brenzoni questa frase di Milo Manara che mi ha chiarito il mistero
Non ricordo se fosse il 1962 o il ’63 (mi ricordo comunque che non avevo ancora la patente), quando, una bella domenica mattina, l’architetto Libero Cecchini venne a prendermi a casa, a Negrar, e mi portò alla scuola d’arte di Sant’Ambrogio.
Strada facendo mi spiegò, con appassionata determinazione, che la scuola d’arte versava in pessime acque, senza fondi né finanziamenti, ma che non doveva chiudere, per la storia che aveva alle spalle e per il ruolo che avrebbe potuto avere in futuro.
Mi raccontò di tutti i sacrifici che quella scuola era costata, sostenuta dalle rimesse degli emigranti e della speranza che aveva rappresentato nel corso degli anni.
Così mi trovai davanti un gruppetto di fantastici ragazzi, più o meno della mia età.
Per il resto, c’erano pochi vecchi cavalletti, qualche foglio di carta, qualche barattolino di tempera, e qualche pennello malandato. Nient’altro.
Ovviamente io non ero un vero insegnante: non avevo nulla da insegnare (del resto non ero neppure retribuito). Quello che feci, quindi, fu di proporre a quei ragazzi di crescere insieme con me.
Con qualche libro sulle avanguardie del novecento che avevo portato da casa, cominciammo a studiare un po’ il cubismo, l’espressionismo e qualche altro “ismo” .
I tempi, allora, erano ben diversi da oggi e, nella nostra realtà di provincia profonda, Picasso rappresentava uno sconvolgimento drammatico rispetto all’ornato e al disegno accademico che erano ancora alla base dell’insegnamento precedente.
Comunque tenemmo duro per qualche anno, finché non arrivarono dei veri insegnanti come Federico Chiecchi e Leonardo Brunelli. A quel punto il mio ruolo era finito e mi ritirai.